TRAMA IN BREVE

In uno Stato (immaginario) dell'America segregazionista accade un fatto inspiegabile: le persone di colore abbandonano tutto ciò che hanno e se ne vanno, partono per il Nord.
La popolazione bianca vede ciò che accade e si chiede cosa stia succedendo.
In un'incredibile varietà di punti di vista, il lettore accompagna alcuni dei personaggi principali avanti e indietro nel tempo, ricostruendo ogni legame tra loro.

EPIGRAFE

La maggior parte di ciò che i miei concittadini chiamano buono,
io credo nel profondo dell'anima che sia cattivo,
e se c'è qualcosa di cui mi pento,
è quasi sempre della mia buona condotta.
Quale demone mi avrà mai posseduto, per farmi comportare così bene?

Se un uomo non marcia allo stesso passo dei suoi compagni,
forse è perché sente il ritmo di un altro tamburo.
Lasciatelo seguire la musica che sente,
comunque sia scandita e per quanto sia distante.

Henry David Thoreau, Walden ovvero Vita nei boschi

INCIPIT

Estratto dall'Almanacco in miniatura, 1961... pagina 643:

Situato nella parte centrorientale del Profondo Sud, lo stato confina a nord con il Tennessee; a est con l'Alabama; a sud col golfo del Messico; a ovest col Mississippi.
CAPITALE: Wilson City.
SUPERFICIE: 129.921 chilometri quadrati.
POPOLAZIONE: (censimento 1960, dati preliminari) 1.802.268 abitanti.
MOTTO: Con l'amore e con le armi abbiamo il coraggio di difendere i nostri diritti.
INGRESSO NELL'UNIONE: 1818.

RECENSIONE

Mi guardo intorno, qui al Sud, e vedo soltanto povertà, disperazione, disuguaglianza e infelicità. Amo il Sud dal profondo del cuore e anche se a dirlo sembra la cosa più smielata del mondo, mi viene da piangere ogni volta che lo vedo per quello che è e lo paragono alla mia idea di quello che potrebbe essere.

Un altro tamburo è il romanzo d'esordio di William Melvin Kelley, uscito nel 1962 negli USA e solo quest'anno in Italia, grazie a NN Editore che ci ha permesso di conoscere un volume che dovrebbe essere inserito tra i classici imprenscindibili da leggere.

La storia di Un altro tamburo è una simil ucronia: racconta cosa sarebbe successo se, tutta la popolazione di colore di uno stato immaginario del Sud (qui è inventato, ma potrebbe essere qualunque altro), avesse deciso di partire ed andarsene, senza dare alcuna spiegazione.

L'idea porta con sé un messaggio importante; tutti si ripetono che "non è niente" è che "tanto non li volevano", ma tutti riconoscono, sotto sotto, la verità: la popolazione, ora, è troppo ridotta e i commercianti sono destinati al fallimento e, inoltre, quali degli uomini bianchi rimasti occuperà i lavori, considerati poco dignitosi ma necessari, che svolgevano i neri?
Questo, però, non è l'unico messaggio che arriva: il libro ci esorta a fare, a compiere ciò che vorremmo senza frenarci perché "non si può, non si deve, chissà gli altri cosa ne penseranno". Tutti noi, anche se in piccolo, siamo legati da catene che ci paiono indissolubili e che, invece, possiamo spezzare e dobbiamo spezzare, se questo ci serve per essere realmente felici.

Chiunque, chiunque si può liberare dalle catene. Quel coraggio, per quanto sia nascosto in profondità, aspetta sempre di essere chiamato fuori. Basta solo usare le parole giuste, e la voce giusta per pronunciarle, e uscirà ruggendo come una tigre.

Oltre alla trama, originale ed interessante, a colpire è la struttura del testo. Infatti, ciò che succede ci è raccontato da diversissimi punti di vista: in terza persona, in prima, persino sotto forma di diario. Ciò che scopriamo non è legato esclusivamente al presente o al futuro, è anche il passato di molti di loro ad insegnarci qualcosa e a dare un significato ancora più profondo a ciò che succede.

Il cambio strutturale necessita anche di un cambio stilistico: le persone del Sud non parlano come quelle del Nord, quelli più acculturati non parlano come quelli meno. Martina Testa, la traduttrice del volume e grande nome italiano nel campo della traduzione (moltissimi dei più "grandi" sono stati tradotti da lei, e il suo nome è una garanzia di qualità), ci spiega nella Nota del Traduttore a fine volume (presente in tutti gli NN tradotti), le principali difficoltà in questo senso: le frasi idiomatiche e gergali da rendere in italiano e persino gli insulti razziali che, fortunatamente, non hanno la stessa varietà qui in Italia.
Mi è già capitato molte volte di leggere libri in cui autore e traduttore svolgessero un ottimo lavoro in questo senso, ma in questo testo l'ho trovato particolarmente efficace e ben riuscito; impossibile non notare le differenze.
È piuttosto interessante vedere come il razzismo, così radicato, induca anche coloro che non lo sono (specialmente il bambino della storia), ad utilizzare parole con una connotazione negativa, ma inconsapevolmente, solamente per abitudine e con nessuna velleità di fare del male.
Le parole più rilevanti o i pensieri, vengono scritti in corsivo nel testo.

«Ti spiego. Secondo me nessuna parola nasce come una parolaccia. È semplicemente una parola, e poi la gente le dà un significato. E magari tu non la usi con lo stesso significato che le danno tutti gli altri. Per esempio, se qualcuno a scuola ti dà della femminuccia, non significa che sia per forza brutto essere una femmina: è come dire che uno ha gli occhi grigi. Non significa che sia brutto avere gli occhi grigi. Ma se a uno di colore gli dai del negro, lui pensa che gli stai dicendo una cosa brutta, anche se magari tu non la intendevi in quel modo, capisci?»

La traduttrice racconta anche come il suo incontro con il testo di Kelley sia stato "la sensazione di abitare il suo tipo di mente preferita" e, effettivamente, anche se in una versione meno simbiotica, è ciò che prova anche il lettore. Per quanto nel testo vi siano personaggi anche discutibili e affermazioni inaccettabili (non solo per la questione razziale, ma anche per il rapporto uomo/donna e sulla violenza a queste ultime), non si avvertono forti sensazioni negative. L'atmosfera, perciò, è talvolta grave e sempre molto percettibile, ma non difficile da sostenere.

Lì per lì volevo raccontarle una balla. In fondo non fa mai piacere ammettere che sei finita in macchina con un ragazzo molesto, perché lo sanno tutti che in realtà in quella situazione ti ci sei messa tu.

Ciò che succede sembra ineluttabile e, anche se fa male, ne ricaviamo un insegnamento. Il finale colpisce ed è impossibile da dimenticare. 

Nel volume è presenta anche una biografia di William Melvin Kelley, raccontato sia come persona che come lettore ed autore.

Diceva spesso che, non essendo molto bravo a leggere, in vita sua aveva finito solo due libri: l'Ulisse di Joyce e la Bibbia.

In conclusione, sono riuscita a trovare in questo testo un unico difetto: avrei voluto leggere altri cento, mille punti di vista, avrei voluto sapere ancora di più. Ma, come spesso accade in queste situazioni, sono consapevole che il libro che mi immagino di desiderare avrebbe avuto su di me un effetto completamente differente e, forse, avrebbe perso la magia con cui questo mi ha incantata. 

Come dice anche Martina Testa all'interno del volume, questo libro è e merita di essere un classico e, aggiungo io, anche imprescindibile. Consigliato con veemenza.

La mia speranza, ovviamente, è quella di essere riuscita a trasferire al lettore italiano lo stesso senso di immediatezza, di orchestrazione fluida, che contribuisce a fare di Un altro tamburo una lettura trascinante e moderna: un gioiello della letteratura afroamericana da riscoprire e inserire definitivamente fra i classici.

CITAZIONI

La guerra non gli aveva dato nulla ma l'aveva privato di tutto, e così, trent'anni prima, aveva deciso che la vita non valeva la pena di essere affrontata in piedi, dato che ti metteva sempre al tappeto, e si era seduto su una sedia a rotelle per guardare il mondo da quella veranda, spiegandone il caotico andamento agli uomini che ogni giorno gli si raggruppavano attorno.

La gente sul molo capì subito qual era il problema: I marinai avevano paura. Glielo si leggeva negli occhi. Adulti grandi e grossi spaventati dall'essere misterioso che era incatenato alla parete della stiva.

Harry non sapeva rispondere. Se domani incontrassi uno che mi racconta la scena che ho appena visto, certo, direi che Tucker Caliban è impazzito. Ma non lo riesco a dire adesso che ce l'ho qui davanti agli occhi, perché se c'è una cosa che so è questa. Non è la pazzia che lo spinge. Non so cos'è che lo spinge, ma non è la pazzia.

Magari è solo fatto così, come papà e il signor Thomason che litigano tutto il tempo, con le facce arrabbiate, ma papà dice che il signor Thomason è il suo migliore amico di sempre, a parte la mamma, e anche mamma e papà stanno sempre a litigare, quindi evidentemente non conta che faccia hanno le persone, o cosa dicono, ma solo quello che fanno.

E invece, tutto questo: erano... troppo felici.

Mi ricordo tutto abbastanza bene perché era un momento della mia vita in cui tutto mi sembrava un simbolo di qualcosa, in cui mi sembrava di dover prendere ogni secondo una decisione enorme e clamorosa. 

Non solo non pareva una domestica, ma non pareva nemmeno una di colore, tranne forse per il naso.

E una cosa buona dell'avere lei come amica era che fosse di colore, quindi non saremmo mai entrate in competizione per un ragazzo, perché quelle sono cose che rovinano sempre le amicizie, anche le più strette.

Era che gradualmente, da che avevo memoria, avevano cominciato a parlarsi sempre di meno finché arrivo il momento – il periodo di cui sto parlando – in cui non si dicevano proprio più nulla... se non forse la notte, quando immagino che le coppie sposate si sentano più sole, quando si rendono conto di quanto poco hanno in comune, e di quanto hanno perso.

Quando dobbiamo fare una cosa, non è che la facciamo e basta, pensiamo se è il caso di farla: pensiamo a tutta la gente che dice che certe cose non andrebbero fatte. E quando ci abbiamo pensato ben bene, finiamo per non farla. 

Cioè, sembra terribile che il massimo che uno può fare per le persone a cui vuole bene sia lasciarle stare.

Vede, io non sono molto esperto della mentalità del Sud, bianca o nera che sia. Certo, anche al Nord abbiamo le stesse tensioni razziali, ma non a un livello così smaccato, primitivo, gradevolmente barbarico come qui.

Il ronzio che avevo nelle orecchie è cresciuto ancora e mi sono messo a piangere. Non piangevo da così tanto tempo che mi ero dimenticato com'è: è come vomitare. Cominci a singhiozzare e ti si annebbia la vista, e lo stomaco ti fa un male cane. Dio santo, che brutto momento.

Se non fosse una ragazza, una donna (e che donna), se fosse un uomo, sarebbe senz'ombra di dubbio il mio migliore amico.

QUARTA DI COPERTINA

Alla fine degli anni Cinquanta, in uno stato immaginario dell’America segregazionista, Tucker Caliban vive e lavora nella piantagione della famiglia Willson, come suo padre ei suoi antenati; ma, diversamente da loro, Tucker è riuscito a comprarne una parte.Finché un giorno, davanti agli increduli abitanti della città vicina, sparge sale sul raccolto, uccide il bestiame e dà fuoco alla propria casa, partendo poi con la famiglia senzavoltarsi indietro. Ben presto la popolazione bianca capisce che è solo l’inizio: tutti insieme, come in un corteo interminabile, i neri abbandonano le case e i lavori, prendono automobili e treni, si trasferiscono altrove, a nord. E i bianchi si ritrovano soli con il loro benessere improvvisamente interrotto, incapaci di capire e perfino di immaginare unavita futura che non sanno più come vivere.William Melvin Kelley ha scritto Un altro tamburo più di cinquant’anni fa, nel momento più aspro della lotta per i diritti civili. E con le voci dei personaggi bianchi, ora dolorosee impotenti, ora attonite e rabbiose, racconta di ineguaglianza e ingiustizia, ma soprattutto di coraggio e amor proprio, consegnando ai lettori un indimenticabile inno alla libertà, a quell’aspirazione senza tempo che ha il potere di cambiare le vite personali e il corso della Storia.

PRO / INDIFFERENTE / CONTRO
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