Dall'orlo della scarpata la torre si piegava verso di me, torcendo la sua possente struttura in pietra. Cercava l'intruso con l'unico occhio da ciclope.
Il ciclope di Paolo Rumiz è stato il mio primo libro dell'autore e, per questo motivo, non sapevo esattamente a cosa andavo incontro prima di iniziarlo.
Questo è ciò che mi ripeto per cercare di giustificare, almeno in parte, la mia incapacità di riuscire ad entrare dentro al testo e, lo ammetto, talvolta persino di comprenderlo pienamente.
L'autore ha intrapreso un viaggio unico: è stato tre intere settimane in un'isola disabitata (che non viene mai nominata per salvaguardia del posto, ma che si può desumere grazie ad alcuni indizi) come guardiano del faro. Il ciclope nasce dagli appunti presi durante quest'esperienza, in quello che potremmo definire come una sorta di diario di viaggio. Questo è il motivo per cui, prima della lettura, ci si potrebbe aspettare un racconto piuttosto lineare e interamente inerente all'esperienza. In realtà, ciò che troverete in questo volume è più legato al flusso di coscienza avuto dall'autore durante questo periodo, piuttosto che alla storia di cosa effettivamente è accaduto.
Paolo Rumiz, infatti, intervalla le descrizioni dell'isola e delle giornate lì trascorse con digressioni riguardanti la sua vita, in cui ci parla di altri viaggi, altre conoscenze e ci mostra la sua vasta cultura al riguardo di numerosissime materie. Tante sono anche le citazioni di libri e di autori disparati, tra i quali compare più volte anche il mio amato Robert Louis Stevenson. I capitoli stessi sono intitolati, talvolta, utilizzando nomi di figure mitologiche, religiose e/o letterarie (Giona, Cassandra...) che si ricollegano sempre al contenuto del testo.
Sono nella macchina di luce, nella sua pancia, come Giona nella balena. La prima notte nel faro non è ancora finita, e il Ciclope si è già impossessato di me.
Questa scelta rende il libro particolarmente denso (tantissimi concetti differenti in pochissimo spazio) e periglioso: si passa dal presente al passato, da un accadimento a una leggenda, da un personaggio ad un altro, da un racconto a una presa di posizione e, a meno di avere la medesima cultura e le stesse conoscenze del narratore, potrà capitare di perdersi, di non capire dei passaggi o, perlomeno, il perché di alcuni collegamenti. La comprensione, dunque, non è stata così semplice per me.
Da amante del mare, ammetto di aver scelto questo testo (che, tra l'altro, avevo l'intenzione di leggere in riva al mare, proprio per riuscire a viverlo al meglio) principalmente per riassaporare l'atmosfera che solamente questa ambientazione mi fa vivere, sia come lettrice che come persona. Un'isola disabitata e il completo isolamento dalla tecnologia, mi sembravano presupposti perfetti per leggere qualcosa di profondo e poetico. Questi aspetti non mancano, e quando Rumiz si sofferma sulle descrizioni le immagini arrivano vivide, ma sono solamente una piccola parte di ciò che viene narrato e, personalmente, ho trovato difficile rientrare in tempo nell'atmosfera giusta prima che l'autore ne uscisse nuovamente per raccontarmi qualcos'altro.
Un mondo dove, stagioni a parte, il tempo è scandito dall'avanzare delle rughe sul viso di ossute matriarche nerovestite.
Lo stile di Rumiz è altisonante, ricercato e talvolta molto specifico. Dona bellezza e significato ad ogni minima espressione e cerca di rendere il racconto di un piccolo avvenimento un insegnamento che si può estrapolare ed utilizzare per imparare qualcosa in generale, sulla vita e sugli uomini. L'autore ci fa sapere la propria opinione personale su alcuni aspetti della vita quotidiana, talvolta alcuni concetti sono ripetuti più volte e con enfasi.
Navigarvi con l'immaginazione è mille volte meglio che brancolare nel web, o castrare le mie divagazioni con la scorciatoia di un motore di ricerca.
A causa della densità del testo, della sua non linearità e dello stile, che porta a leggere lentamente e con attenzione ogni singola parola, il ritmo di lettura è particolarmente lento. Nonostante le poche pagine, consiglio di organizzarsi per leggerlo in tanto tempo, poche pagine alla volta.
Bello il finale in cui, finalmente, ho sentito di essere riuscita ad entrare un po' nella storia, anche se un po' troppo tardi. Ammeto di aver pensato di rileggerlo subito dopo nella speranza di riuscire ad avere la medesima sensazione anche con il resto del testo ma, alla fine, ho rinunciato.
In conclusione, trovo che questo libro, rimaneggiato ben poco rispetto agli appunti iniziali, per stessa ammissione dello scrittore, sia molto personale e, quindi, difficile da seguire per chi arriva da fuori e, magari, conosce anche poco Rumiz. Sono tantissimi gli spunti interessanti inseriti nel testo ma non li ho trovati approfonditi come avrei voluto, in particolare il racconto del viaggio che, a conti fatti, non occupa così tanto spazio nel volume come, invece, speravo.
A ripensarci, mi rendo conto di non aver scritto io questa storia. Sono stati il vento e la marea. Io non ho fatto che registrarne la voce amplificata dal ventre cavo della torre. Per questo il diario che ho riempito non ha quasi bisogno di rielaborazione. Esso è, in tutto e per tutto, il racconto. Non mi resta che trascrivere e riordinare quelle note.
Lo consiglio a chi ama questo scrittore e desidera sapere le sue esperienze di vita, le sue conoscenze e le sue opinioni su argomenti quali i social e la tecnologia, a chi apprezza un'infarinatura generale su tantissimi argomenti differenti.
Non lo consiglio a chi desidera leggere la storia di un'isola, del mare, del faro, perché tutto questo c'è ma è nascosto molto dietro alla figura del narratore.
Vi prego dunque, nel caso la trovaste, se siete affezionati alla mia scrittura e non volete che un luogo benedetto sia invaso dall'orda degli infedeli, non ditelo a nessuno. E se doveste rompere il patto e dire forte quel nome, vi maledirò come Long John Silver sull'Isola del Tesoro. E farò di tutto per smentirvi.